Luca Spada: «L’AI non ci sostituirà, ma potrebbe riuscire a manipolare le menti. La foga ambientalista? Indirizziamola verso chi inquina, con i dazi»

Luca Spada è una figura di riferimento quando si parla di innovazione e futuro. Dal nulla ha plasmato un gigante delle telecomunicazioni e della fornitura di servizi internet come Eolo. In un recente incontro dedicato all’energia, ha spiegato la sua visione sulle dinamiche in corso in tema di tecnologia, di politiche ambientali e di giovani, rispondendo ad alcune domande chiave.

Si parla tanto di intelligenza artificiale, ma davvero arriverà a lasciarci tutti senza lavoro?

«Non credo proprio. Ogni rivoluzione industriale ha cambiato radicalmente il nostro modo di vivere, produrre e lavorare, ma le occupazioni si sono solo trasformate. Sarà così anche con l’AI: ad esempio, chi fa analisi o consulenza in molti settori rischia di essere superato dalle macchine, ma in realtà può usare quegli strumenti a suo stesso favore. Altri si ricicleranno in impieghi diversi, che in parte oggi neanche esistono, ma il lavoro delle persone resterà centrale. Fantasia, creatività e capacità di discernimento sono elementi decisivi e insostituibili. Io semmai temo ben altro per lo sviluppo dell’AI».

Quali sono i veri pericoli?

«Il nodo riguarda la privacy. Non mi riferisco semplicemente alla riservatezza, che già da tempo mettiamo in gioco consegnando tantissime informazioni ai social o acquistando online. Il punto è l’uso che può essere fatto di quei dati. Rendiamoci conto che ormai i cellulari e un gran numero di strumenti di domotica sono sempre all’ascolto. Sarà capitato a tutti di parlare di un argomento e di trovare qualche ora dopo della pubblicità mirata sul telefonino, pur senza aver mai fatto richieste specifiche ai motori di ricerca».

Quindi cosa vuol dire?

«Significa che è giusto che ci sia una forte attenzione sull’evoluzione dell’intelligenza artificiale. Nelle mani sbagliate, può diventare uno strumento potentissimo per manipolare le menti delle masse. Oggi gli algoritmi tendono a sollecitare bisogni scavando nelle nostre preferenze. Un domani possiamo essere condizionati in maniera ancor più profonda. Pensiamo alle elezioni: avrete letto che in certi contesti c’è chi ha usato fake news e troll per influenzare il voto, con effetti evidenti. E sono state azioni gestite dagli esseri umani. Pensate se dovesse farle una macchina con processore operativo milioni di volte più veloce di noi e che possiede tutti gli elementi per sapere chi siamo, cosa ci piace, cosa ci spaventa, in una forma tale da poter condizionare inconsciamente le nostre scelte ed opinioni».

È un rischio imminente?

«Sì, ed è giusto affrontarlo adesso. Perché è vero che il processo è appena iniziato, ma l’evoluzione è forsennata. Poche settimane fa Facebook ha compiuto vent’anni, segnando una nuova era che tutti noi abbiamo vissuto. L’AI maturerà i suoi cambiamenti in un tempo estremamente più rapido e i nostri ragazzi saranno al centro più di tutti di questa delicata fase. L’Europa qui deve fare urgentemente la sua parte, serve un organismo di controllo e soprattutto mi piacerebbe che, come Europa, diventassimo leader nella ricerca sull’AI. In passato abbiamo già perso diversi treni, quello di Internet, delle grandi infrastrutture web, dei social. Sull’AI siamo ancora all’anno zero e possiamo recuperare il tempo perduto. Ma servono subito investimenti significativi. Almeno 100 miliardi di euro da investire immediatamente in questo settore, perché come Europa dobbiamo diventare gestori dell’AI e non passivi utilizzatori senza possibilità di controllo».

Parlando di giovani, come sono cambiati nel mondo del lavoro?

«In ambiti ad alta tecnologia come quelli in cui opero, la loro freschezza è sicuramente un valore aggiunto. Quando sono bravi, incidono sin da subito. L’elemento critico è che sono accompagnati da minor entusiasmo e scarsissima pazienza. Da un lato è difficile riuscire a coinvolgerli davvero, a sorprenderli, perché sono nati in una dimensione digitale dove tutto è spinto ed eccessivo, togliendo loro il gusto della scoperta e della realizzazione. Dall’altro vogliono tutto subito, si sentono manager già al momento del colloquio, generalmente non ritengono di dover imparare ed esagerano nel pretendere senza ancora avere dato nulla».

È colpa di un mondo che s’abbevera e s’illude con i social network?

«Più che altro i ragazzi sono schiavi della velocità con cui tutto viene presentato, perdendo il senso della fatica per ottenere un risultato o per sviluppare un percorso. Per quanto concerne i social, io sono concorde con chi pensa che sia stata toccato il punto massimo della curva e che ora arriverà il momento della discesa nel loro utilizzo. Ne ho parlato in un convegno con Beppe Severgnini e anche lui sostiene che il 2024 sarà l’anno della desocializzazione, con la riscoperta dell’interazione personale. Terremo quello di buono che abbiamo nel restare in contatto e fare rete, ma riprenderemo a dare valore ai veri contatti e al nostro tempo».

Chiudiamo con le politiche ambientali, tema caldo soprattutto nel contesto europeo, lei cosa pensa del dibattito in atto sulle regole imposte nell’Unione Europea?

«Credo che spesso si faccia confusione fra i due piani con cui va vista la situazione. In Europa, più che limitare, dovremmo concentrarci sul rendere più accessibili a prezzi accettabili le energie rinnovabili, vera chiave di volta per contrastare il cambiamento climatico. Per quanto riguarda le norme da imporre, fermo restando che ogni azione di tutela ambientale è lodevole, io direi che sia arrivato il momento di concentrarci verso quei Paesi che inquinano davvero il pianeta. C’è una sproporzione evidente».

Pensa a qualcuno in particolare?

«La gran parte degli Stati emergenti agisce spesso con regole sociali e ambientali attenuate se non addirittura assenti. Prendiamo l’India, una nazione gigantesca e in folle crescita che vive senza norme industriali vere. Chi come me gravita sull’asse del Sempione spesso dice di essere in una delle zone più inquinate. Beh, a Nuova Delhi quest’aria la considererebbero purissima visto quella che respirano per colpa delle loro fabbriche. L’aria non si ferma ai confini e l’incidenza di quel che avviene in certi contesti è mostruosa e drammatica. Cerchiamo allora di indirizzare le politiche ambientali nei contesti di maggior emergenza, pretendendo un cambiamento nel modo di produrre con tutti i mezzi a nostra disposizione. In questo contesto avere un’Europa forte e autorevole, con un’unica politica continentale, ci permetterebbe di sollecitare i Paesi meno virtuosi ad introdurre misure green direttamente a casa loro, imponendo dazi sulle importazioni delle loro merci».

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