La privatizzazione strisciante della sanità, fra liste d’attesa e un sistema che si continua a non governare

di Francesca Martini (già Sottosegretario alla Salute e assessore alla Sanità nella Regione Veneto)

Ogni anno assistiamo alla pubblicazione delle famigerate classifiche dei tempi di attesa per le prestazioni erogate dal Servizio Sanitario Nazionale, le cosiddette “liste di attesa”. Periodicamente le stesse lasciano nello sconforto intere platee di cittadini, in particolare quando si rivolgono ai centri unici di prenotazione.

I Cup non sono percepiti dagli utenti come un interlocutore di semplice accesso, poiché spesso non sono in grado di rispondere efficacemente alle richieste del paziente. Per questo credo ci sia ancora molto investire, soprattutto in professionalità. Sono il “front office” della sanità pubblica e, in quanto tale, andrebbero sempre posti sotto la responsabilità di un cup manager e sottoposti a rigorosi controlli di qualità.

Questo scenario si è ormai cronicizzato da decenni, tanto che mi chiedo se abbia ancora un senso parlare nel nostro Paese di un sistema di sanità pubblica totalmente universalistico. La crescente sofferenza dei servizi ha fatto sì che, nel tempo, in Italia si sia sostanziato un gravissimo “conflitto di interessi” tra pazienti e sistema sanitario.

Da una parte il diritto alla salute come diritto costituzionalmente garantito, dall’altro la necessità di raggiungere l’equilibrio dei bilanci regionali. Nella convinzione che i medici capaci siano diffusi su tutta la penisola, non posso dire lo stesso di svariate organizzazioni sanitarie regionali. Spesso i grossi buchi economici si accompagnano ad un panorama dei servizi sanitari inefficiente.

Mi viene spontaneo pormi questa domanda: posso ancora affermare che la sanità italiana sia davvero “rés publica”, così come la intendo nel senso più alto del termine e quindi un prezioso patrimonio della sua comunità di riferimento?

Ma quale è, oggi, la comunità di riferimento? Certo non più quella del contesto sociale entro cui nel 1978 fu concepita la legge 833, cioè la riforma sanitaria che segnava il passaggio dalle mutue all’attuale sistema universalistico. È proprio prevalentemente in materia di visite specialistiche ed esami che abbiamo già una grande fetta di pazienti, attestata attorno al 40,4 %, che nei fatti si rivolge alla sanità privata a proprie spese per avere una prestazione nei tempi adeguati.

Possiamo definirla una sorta di privatizzazione strisciante della sanità, mai dichiarata, ma sostanzialmente già presente. Quanto pesi questo sui bilanci familiari varia da regione a regione, ma il fatto che una così ampia platea di cittadini si rivolga al privato attesta la mancata o inadeguata risposta del servizio sanitario pubblico.

Alla base di tutto questo vi è indubbiamente un corto circuito nella catena della continuità assistenziale. Nel tentativo di riannodare i fili di tutto ciò cito ad esempio una delibera della Regione Veneto, ma anche in altre regioni vi sono stati tentativi di mettere ordine nel delicatissimo settore delle liste d’attesa.

Nel 2007 furono introdotti i “codici di priorità” stabilendo che questi dovessero essere parte integrante della prescrizione di visite ed esami “in scienza e coscienza” da parte del medico. La definizione della richiesta come urgente, programmabile o differibile in Veneto ha determinato l’obbligo da parte del servizio sanitario di attenersi alle indicazioni fornendo la prestazione in un tempo “massimo” definibile come appropriato esclusivamente con un’attesa che va da 10 ai 30 fino ai 180 giorni in base al codice assegnato.

Lo ritengo un buon provvedimento, perlomeno sensato e che ha tentato di mettere ordine, ampliato il coinvolgimento dei medici di famiglia nel percorso di cura conferendo loro anche un ruolo decisionale nella tempistica. Gli stessi cittadini vanno informati in che cosa consista il diritto alla prestazione.

Da una parte vi è l’effettiva urgenza determinata dalla clinica e dall’altra la risposta possibile attraverso la totalità dei soggetti erogatori dei servizi sanitari, pubblici e privati accreditati. In sintesi: hai diritto alla prestazione, ma non dove tu preferisci e i tempi li definisce il tuo medico.

Il ragionamento potrebbe essere una soluzione più che sensata e ben applicato può aiutare a mettere un po’ d’ordine e chiarezza. Sono personalmente convinta che i medici di famiglia abbiano un ruolo strategico nella gestione dei flussi di richieste di prestazioni e nella capacità di ridurre gli accessi impropri al Pronto Soccorso. Con loro va costruita una solida e concreta alleanza basata su azioni e accordi seguendo costantemente l’evoluzione della professione.

In questi ultimi dieci anni, invece, ho assistito a forti tensioni e a un sovraccarico di burocrazia nei loro confronti. Sono fermamente convinta che sia prioritario che dai loro studi abbia origine la prima fonte dell’appropriatezza.

Ma cosa si intende per una “prestazione sanitaria appropriata”? Innanzitutto, una prestazione di intensità graduata rispetto alla patologia (o al sospetto di patologia), ma anche e soprattutto una prestazione erogata nei tempi corretti. Se dai medici di medicina generale ci aspettiamo che operino in un sistema complesso, che segua il paziente dalla prevenzione, alla diagnosi, alla cura, alla guarigione, dall’altro dobbiamo anche essere in grado di offrire una risposta di posti letto adeguata per le acuzie.

È una catena assistenziale che non ammette falle e in cui è fondamentale “governare il sistema“. Governarlo significa concepire il sistema dei servizi sanitari come se si trattasse di un cruscotto, creando i presupposti per essere in grado di seguire l’andamento della domanda, avendo la capacità di “dare gas” a determinati settori e ridurne altri in tempi brevi, di calibrare l’offerta sulle patologie croniche legate al periodo storico e all’ invecchiamento generale della popolazione.

La domanda di prestazioni sanitarie è per sua stessa natura “flessibile” e se ad un sistema “dinamico” ci si ostina a rispondere con un sistema “rigido” si può soltanto ottenere lo stesso risultato di un edificio inadeguato in zona sismica: il suo crollo.

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