Salari, nessuno peggio dell’Italia. È l’unico Stato UE con i parametri in calo, mentre le imposte sugli stipendi sono del 3% più alte della media continentale

In Romania, Ungheria e Croazia i lavoratori, confrontando il loro costo orario con quello di un anno prima, hanno visto un aumento notevole, superiore di circa il 16%. Ma un po’ in tutto l’Est Europa, a dire il vero, i dati del quarto trimestre 2023 appena pubblicati da Eurostat hanno sancito una decisa crescita dei salari.

Attenzione però, perché la voce messa a fuoco dall’ufficio statistica dell’Unione Europea non si può assimilare semplicemente alla busta paga, ma mette assieme stipendio base, premi e indennità di vario genere e anche contributi sociali e tasse versate dalle aziende in favore dei propri dipendenti.

Così anche nel resto d’Europa la crescita c’è stata, anche se più contenuta. Francia e Spagna veleggiano ad esempio attorno al +3,5%. In Germania, per fare un paragone classico, si è segnalato un +2,2% nonostante la forte crisi produttiva che ha colpito il colosso teutonico.

L’Italia, invece, in questa classifica è il triste fanalino di coda fra tutti gli Stati membri: è l’unica nazione con segno meno al suo costo orario del lavoro, per quanto si tratti di un impercettibile -0,1%, che diventa però pesantissimo al cospetto di una media UE pari al +4% (che scende a +3,4% se si considera solo la zona euro).

Significa insomma che il potere d’acquisto degli italiani è di nuovo sceso a livello nazionale e, soprattutto, internazionale. D’altronde basta girare per una qualsiasi capitale europea per rendersi conto di come i prezzi siano tarati sul potere d’acquisto di tedeschi, inglesi, americani e asiatici, risultando invece proibitivi per la gran parte dei lavoratori italiani.

Ciò che resta alto, semmai, è il peso delle imposte dovute dai datori di lavoro, che versano ancora circa il 3% in più della media continentale, senza però riuscire a rendere un pochino più ricchi i propri lavoratori.

Insomma, non è soltanto l’inflazione ad aver colpito. Pesano una spinta ancora troppo tenue della ripresa dopo la pandemia, la fine delle grandi agevolazioni in epoca Covid, gli impegni di spesa legati al superbonus che limitano gli interventi, la correlazione con le difficoltà tedesche che si sono scaricate soprattutto sulle imprese del Nord Italia e l’elevatissimo grado di tassazione che continua a zavorrare chi fa investimenti e, di conseguenza, il relativo personale.

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